Intorno alle e-bike si stanno concentrando due tematiche paradossalmente in contrasto tra loro: approfittare del treno che sta passando, ossia un mercato in rapidissima espansione in tutto il mondo, e privilegiare il “made in casa propria”.

Come dire: “Sì ai frutti di un’economia globale, a patto che si parli solo la mia lingua”. Ecco allora che ci si trova di fronte alla bizzarra questione che contrappone politiche protezioniste (a volte nemmeno infondate) che impongono dazi sulla marea di prodotti che giungono dall’estero  – leggi soprattutto Cina – e la volontà di non restare fuori da una partita che vale centinaia di milioni di euro (o dollari o sterline, fate voi).

Un caso è quello dell’Australia, che ha recentemente proposto, nella persona del Ministro per i Cambiamenti Climatici Shane Rattenbury, leader della formazione politica ACT Greens (i Verdi australiani), l’abolizione del dazio del 5% sulle e-bike importate nel sub-continente.

La tassa era stata imposta per favorire sul mercato interno le aziende di casa ma, come sostiene Rattenbury, frena le vendite: un problema, visto che le bici a pedalata assistita straniere entrano comunque nel Paese e rappresentano la stragrande maggioranza dell’offerta.

Per l’Australia, dunque, la decisione è in bilico tra due priorità, ossia far pedalare di più i propri cittadini e proteggere i – pochi, nel suo caso – produttori interni.

photo credit: juergvollmer Stromer ST2, in Reihe 01 via photopin (license)

La Gran Bretagna ha invece recentemente sollevato un’altra questione di natura interna: come far salire più Inglesi in sella. La risposta, di natura economica, è attraverso degli incentivi che spingano effettivamente all’utilizzo della bici.

La traduzione materiale di questa, apparentemente banale, risposta doveva essere l’introduzione dei cosiddetti “salary sacrifice” in favore del bike to work: in pratica, la commutazione di una parte dello stipendio in agevolazioni per dotarsi di una bici – meglio, di un’e-bike – per recarsi al lavoro.

Doveva, perché pare che le soglie impostate siano inefficaci, sostanzialmente non allineate con il prezzo delle bici a pedalata assistita sul mercato; motivo per cui, recentemente, è stato chiesto da varie associazioni di settore di modificare tali soglie per cercare di apportare davvero un beneficio sia agli utenti potenziali che all’industria ciclistica britannica.

Una delle questioni che emerge è dunque relativa al prezzo elevato delle bici elettriche di una certa qualità, che si scontra con piani di incentivi non sempre abbastanza capienti da venire realmente incontro alle persone, e con la volontà di far decollare i prodotti nazionali sui mercati di casa.

Chi trae beneficio da questa situazione sono alla fine proprio i prodotti di fascia qualitativamente più bassa, nonché i più economici: la gente ha effettivamente voglia – e, talvolta, necessità – di andare in bicicletta ed è ovvio che nel bilancio quotidiano vinca un’e-bike meno bella, meno rifinita ma anche molto più accessibile per le proprie tasche.

Si tratta del classico cane che si morde la coda, come dimostra la bagarre che procede ormai da mesi in sede europea sulle possibili sanzioni da applicare agli import di e-bike cinesi, accusate dalla manifattura europea di drogare il mercato sbarcandovi con prezzi stracciati frutto di agevolazioni statali che non dovrebbero avere.

Porterà a qualcosa? O, nel frattempo, chi ha intenzione di acquistare un’e-bike per muoversi in città finirà per dover fare la constatazione più ovvia del mondo una volta letti i prezzi sui cartellini?