Questo dovrebbe essere l’anno di Dumoulin al Tour de France, eppure proprio il suo Team ha apertamente dichiarato di volersi concentrare sul Giro d’Italia. Perché?
L’organizzazione del Giro avrebbe trovato una formula avvincente e spettacolare, in una parola, funzionante, quella del Tour no. Ad esporre la sua critica è stato il numero uno del Team Sunweb, Iwan Spekenbrink attraverso le pagine di CyclingNews.
Un Giro “vivo” contro un Tour addormentato
Il punto eviscerato da Spekenbrink sta nella formula: il Tour de France, tra le ambitissime classiche del ciclismo quella che non può mancare nel palmares di ogni “grande”, negli ultimi anni sarebbe stato ingrigito dalle scelte strategiche della ASO, l’associazione organizzatrice.
Il capo del Team Sunweb punta il dito soprattutto contro la monotonia delle tappe, dalle quali sono quasi sparite le prove a cronometro – ridotte ad una sola nella prossima edizione.
Per Spekenbrink, che è anche presidente dell’associazione dei team ciclistici professionistici (la AIGCP), si tratta di una scelta deleteria che rende assolutamente preferibile il Giro d’Italia 2019, con i suoi 58,8 km di cronometro su tre tappe (contro gli appena 27 km del Tour 2019).
«Al Tour la gara rimane “bloccata” per ore ed ore. È un ripetersi sempre uguale; nessun corridore vuole perdere secondi preziosi, quindi non rischia ed attende sino all’ultimo. Nell’ultimo Giro si sono visti invece i migliori scalatori sfruttare davvero le montagne per avvantaggiarsi», è una delle esternazioni del boss di Sunweb.
Una questione di equilibrio
La critica che arriva dal Team Sunweb, che starebbe dunque puntando a portare di nuovo, dopo la vittoria del 2017 di Dumoulin, la maglia rosa in casa più che quella gialla, è di aver ridotto il Tour de France ad una gara “di posizione”, dunque monotona.
La scelta tattica effettuata dalla ASO di ridurre al minimo le cronometro – scelta fatta per contrastare il predominio del Team Sky e rimescolare un po’ le carte – starebbe dunque sortendo l’effetto opposto, inducendo i ciclisti a correre in modo conservativo e non aggressivo.
Al contrario, la varietà offerta dalle tappe del Giro d’Italia organizzato da RCS, tra cronometro e scalate, si dimostrerebbe molto più efficace – la conduzione di Simon Yates ne sarebbe un esempio – nel produrre una gara aggressiva e ricca di colpi di scena.
A tale proposito Spekenbrink vorrebbe dunque che anche il Tour presentasse maggior vivacità, bilanciando maggiormente le tappe di pianura a quelle in salita e, soprattutto, alle cronometro.
Un Tour conservativo per questioni di sponsor?
C’è però anche chi parla di altre ragioni dietro alla scarsa intraprendenza dei ciclisti negli ultimi Tour de France.
Una delle questioni riguarda gli sponsor, che valuterebbero, a parità di piazzamento, meglio i risultati conseguiti alla grande classica francese. Insomma, se un settimo posto oltralpe vale quanto un quinto in Italia, i corridori potrebbero dunque essere indotti più a “mantenere” le posizioni che non a tentare il tutto per tutto.
La scarsa ricerca del rischio, per Spekenbrink, non dipenderebbe solo da questo: nella sua analisi, il punto focale rimane sempre lo stesso, ossia la conformazione della gara, che non si presta ad azioni imperiose.
Il secondo punto è legato ai misuratori di potenza: c’è infatti chi sostiene che il monitoraggio visivo delle prestazioni stia spingendo i Team a far correre i propri atleti più con l’occhio alla media che non con il cuore.
La ASO stessa, per altro, ha espresso la volontà di chiedere – compito che in definitiva spetterebbe all’UCI – la proibizione dei misuratori di potenza in gara, proprio per evitare che i ciclisti si chiudano in un’interpretazione “robotica” del tracciato.
Spekenbrink solleva però dubbi a riguardo e rimette il pallino al centro domandandosi se davvero la ASO voglia chiedere alle squadre di rinunciare ai misuratori, dal momento che la loro presenza è fonte di apporti economici non indifferenti.
Insomma, si capisce che la questione è tutt’altro che di facile soluzione: quale che siano le cause è però chiara una cosa, ossia che il ciclismo eroico di un tempo ha ormai lasciato spazio ad una versione moderna – e ci mancherebbe – dominata più dal calcolo pecuniario e dalle prestazioni scientificamente pianificate che non al genio ed all’istinto dei campioni.