Per fare andare più persone in bici bisogna costruire più piste ciclabili: non del tutto vero. Un nuovo studio mette in evidenza come sia soprattutto necessario analizzare la composizione demografica cittadina per innalzare i livelli di ciclismo urbano.
Ciclismo di genere
Un nuovo studio potrebbe ribaltare quello che comunemente viene considerato necessario per aumentare la ciclabilità di un luogo. La ricerca in questione ha studiato come e perché le persone vanno in bici, raccogliendo i dati in base al sesso e all’età. Le caratteristiche demografiche della popolazione ciclistica potrebbero assumere un ruolo molto importante all’interno delle scelte che molti paesi si stanno impegnando a prendere per incentivare il ciclismo. Soprattutto però rendono evidente quanto siano necessarie regole che derivano dalle analisi e non viceversa, quanto cioè sia importante una pianificazione coerente con il contesto tecnologico-sociale e non un’applicazione asettica di norme e concetti che sembrano sempre più inadatti alla vita odierna. Ma il dato interessante che i ricercatori hanno scoperto è una forte associazione tra il livello di ciclismo urbano e la rappresentanza delle donne.
Cosa è emerso
Potrebbe trattarsi di una rivelazione sorprendente con un impatto anche in termini di pianificazione urbana che, come per la medicina, non sarebbe quindi neutrale rispetto al genere. I luoghi con livelli di ciclismo superiori al 7% hanno una buona rappresentanza di donne, di bambini, di anziani e di utenti rientranti nella fascia di età lavorativa. Nei luoghi con bassi livelli invece, le donne sono sempre una minoranza mentre anziani e bambini sono spesso gravemente sottorappresentati. Le donne poi non solo hanno meno probabilità di percorrere strade pericolose rispetto alle loro controparti maschili, ma fanno anche viaggi più brevi, più frequenti e per ragioni non legate ad un pendolarismo tradizionale.
Il caso giapponese
Ciò potrebbe essere dovuto al fatto che rispetto agli uomini le donne tendono a svolgere una quota piuttosto alta di lavoro domestico, per il quale la bici sembra molto indicata: vanno al lavoro, a scuola dai figli, a fare la spesa, hanno cioè esigenze completamente diverse da chi invece deve solo andare in ufficio e tornare indietro. In questo modo si potrebbe anche spiegare perché tre città giapponesi – Osaka, Nagoya e Tokyo – hanno recentemente registrato la più alta percentuale di viaggi in bicicletta compiuti da donne, nonostante il paese abbia poche infrastrutture ciclabili protette, abbia i marciapiedi condivisi con i pedoni e quasi tre volte il tasso di incidenti mortali rispetto ai Paesi Bassi. Si è ipotizzato che ciò sia dovuto al fatto che circa il 70% delle donne giapponesi lascia la forza lavoro dopo aver avuto il primo figlio, assumendosi la quota maggiore del lavoro domestico e quindi anche dell’impiego della bici.
Se bastassero le ciclabili
Negli ultimi tempi abbiamo visto emergere piste ciclabili in molte città, une delle poche (forse l’unica) operazioni concrete a favore delle biciclette. Posto che si tratta di disposizioni politico-economiche che hanno origine in alte sfere decisionali, non hanno sempre portato ai risultati sperati. Oltre a creare malcontento in quelle fasce di popolazione che non possono o non vogliono usare la bici, hanno fatto credere di poter fare a meno della pianificazione. Chiariamo, ben vengano le piste ciclabili (i loro vantaggi sono enormi), ma come dimostra lo studio bisogna che siano il frutto di un’analisi, non la premessa. La conferma di un frequente utilizzo scorretto di queste piste come strumento urbanistico si sovrappone ai molti studi usciti negli ultimi anni e che parlano di funzioni positive derivanti dal loro utilizzo ma solo a certe condizioni o di come la mancanza di parcheggi protetti disincentivi molto di più l’utilizzo della bici rispetto alla carenza di piste ciclabili.
Come fare andare tutti in bici?
Questi risultati indicano come lo sviluppo di infrastrutture basate unicamente sulla domanda proveniente dalla categoria percepita come quella di maggioranza può perpetuare le disuguaglianze sociali che si riflettono in un abbassamento dei livelli di ciclismo. E’ perciò importante che le valutazioni politiche in materia non si concentrino solo sull’uso generale, ma anche sull’uso per sesso ed età, garantendo così una crescita omogenea della bicicletta sia a livello territoriale che sociale.
Ma il problema che pone lo studio è in realtà più esteso, se sia cioè il ciclista che deve adattarsi alle infrastrutture o le infrastrutture al ciclista. La risposta meriterebbe un lungo approfondimento, ma è chiaro che entrambe le parti dovrebbero venirsi incontro. E se in passato questa operazione veniva in qualche modo fatta (e le piste ciclabili ne sono una conferma), oggigiorno non è più così e sembra che solo il ciclista debba adattarsi. Adattarsi poi non solo alla infrastrutture, ma, in senso più ampio, a tutto il passato storico, nonostante le condizioni di vita, di traffico, di urbanizzazione e le tipologie di veicoli siano enormemente cambiati nel frattempo.