Il Tour de France 2018 parte sulla scia dell’ennesima telenovela ciclistica a tema antidoping, protagonista l’atleta più forte del momento, Chris Froome. Accusato di aver ecceduto con il Salbutamolo, un farmaco anti asma, il campione britannico è stato infine assolto grazie ad una difesa che ha portato a galla legittimi dubbi sui sistemi di valutazione dei livelli di tale sostanza.
La vicenda è però profondamente discorde con la linea mantenuta dall’UCI in altre occasioni, aprendo la strada ad un quesito fondamentale: quanto conta l’influenza di un atleta sulle decisioni a suo carico?
Un antidoping a due velocità?
C’è una domanda, se vogliamo un po’ tendenziosa, che circola sulle pagine della stampa specializzata internazionale: quanto la posizione di Chris Froome e la sua disponibilità economica hanno pesato nella sua assoluzione?
Attenzione, non si mette tanto in dubbio la legittimità della sua innocenza e tantomeno si vuole insinuare che abbia fatto ricorso al denaro per ottenere un verdetto favorevole, bensì porre l’accento su una questione classica anche al di fuori della giustizia sportiva.
Chris Froome, non si sa se da solo o con l’appoggio del Team Sky, ha potuto permettersi, fortuna sua, una difesa con i fiocchi capitanata dall’avvocato londinese Mike Morgan, una testa di serie nel suo settore.
Il caso dell’atleta keniota naturalizzato britannico ha avuto un trattamento di riguardo, a partire dal fatto che è divenuto di dominio pubblico per una soffiata della stampa e non, come in altri casi, tramite una sospensione da parte del team di appartenenza: soprattutto, ha potuto avvalersi di una struttura difensiva oltremodo solida, giunta addirittura e – perché no – giustamente, a mettere in dubbio la validità dei test condotti dalla Wada.
Cosa succede però quando l’atleta che risulta positivo ad un test antidoping non è nella posizione di evidente rilevanza in cui si trova Froome? Quanto può diventare difficile dimostrare che a sbagliarsi è il laboratorio?
Il caso André Cardoso
Il parallelo che viene proposto è quello con André Cardoso, ciclista portoghese 33enne che in questo stesso periodo del 2017 venne sospeso per positività all’EPO.
Premettendo che l’EPO è una sostanza che non fa avvertire la fatica proibita sempre, a differenza del Salbutamolo, che è consentito entro certi livelli in quanto parte di terapie anti asma, l’episodio di Cardoso è significativo in quanto pur non è essendo dimostrata la sua positività, l’atleta è stato in pratica costretto al ritiro.
Il Portoghese venne fermato perché un campione risultò positivo: tutto corretto, non fosse che il contro-campione di conferma venne valutato come nullo. In teoria una buona difesa avrebbe potuto dimostrare che probabilmente si era trattato di un falso positivo, di un errore del laboratorio o, più semplicemente, affermare che le prove non erano sufficienti per confermare la squalifica.
In linea pratica, Cardoso, che non è esattamente una “star”, si è ridotto sul lastrico per pagare le spese legali e, ad un anno di distanza, ha rinunciato a proseguire la sua battaglia in quanto insostenibile economicamente. Dalle gare professionistiche è passando a fare la guida per riders amatoriali per sopravvivere.
La domanda è dunque scontata: quanto è “equo” il trattamento riservato agli atleti dal sistema antidoping UCI? Fermare chi froda la lealtà sportiva è sacrosanto ma trasformare la difesa in una questione di possibilità economiche apre scenari effettivamente molto lontani dal concetto di trasparenza.
Altri casi di Sabutamolo: Ulissi e Petacchi
Se Cardoso è indagato per uso di EPO, sostanza che sposta la discussione su un piano diverso, Diego Ulissi e Alessandro Petacchi furono a loro tempo trovati oltre il limite ammesso di concentrazione nel sangue di Salbutamolo.
Mentre oggi Chris Froome lancia appelli sulla stampa internazionale per chiedere che l’UCI e la WADA cambino i loro sistemi di valutazione per scongiurare i falsi positivi, allora i livelli di Ulissi e Petacchi non furono in alcun modo messi in discussione.
Forse non erano nemmeno da discutere, per carità, eppure il campione britannico è stato appena assolto proprio grazie alla retroattiva riconsiderazione di quelle che sono le concentrazioni consentite.
Sebbene la stessa UCI sia intervenuta spiegando che esistono dei distinguo tra i vari casi, una parte del mondo del ciclismo professionistico non è convinto che il sistema antidoping sia al 100% trasparente nei suoi meccanismi.
Antidoping, anche Lappartient apre alla riflessione
Infine, due reazioni significative in merito al sistema antidoping sollevate dal caso Froome.
Una è dell’italiano Vincenzo Nibali, che a proposito dell’assoluzione di Froome e delle condanne passate di Diego Ulissi e Alessandro Petacchi, che ha parlato apertamente di “doppio standard” nei criteri di valutazione.
L’altra, molto più significativa visto il pulpito dal quale proviene, è del presidente UCI David Lappartient, che ha affermato come «Da questo caso vi sia un’importante lezione da apprendere» e che «ci sarà un prima ed un dopo».
Sibillino ma nemmeno troppo.